Oltre ai pazienti con Artrite Reumatoide (AR) già in trattamento con i farmaci biologici, c’è un ulteriore 10% dei pazienti che hanno ricevuto una diagnosi specifica e che pur potendo trarre vantaggio dal un analogo trattamento con i cosiddetti b-DMARDS (biologics disease-modifying antirheumatic drugs) non accedono alle terapie.
I farmaci in questione - a differenza degli anti-infiammatori non steroidei e dei corticosteroidi, che contrastano l’infiammazione ma non incidono sulla progressione del danno anatomico- modificano l'andamento della malattia e la rallentano, migliorando la funzionalità delle articolazioni e riducendo la disabilità e la mortalità, a patto di essere utilizzati nelle fasi più precoci del decorso dell'artrite reumatoide.
Il dato è emerso da uno studio sui pazienti con AR realizzato da Clicon Health, Economics&Outcome Research (società di ricerca specializzata in progetti di studio su database clinici e amministrativi in collaborazione con ASL, Mmg e centri Specialistici) e presentato l'11 luglio a Milano in convegno promosso dalla SIR (Società Italiana di reumatologia) e dall’Italian Biosimilars Group (IBG), con la partecipazione delle associazioni dei pazienti, APMAR e ANMAR.
Sotto la lente di Clicon i dati relativi a pazienti afferenti ad un campione di ASL distribuite sul territorio nazionale, successivamente proiettati sull’intera popolazione italiana. Sono stati inclusi tutti pazienti che nel quinquennio 2013-2017 hanno ricevuto una diagnosi di artrite reumatoide individuata tramite le schede di dimissione ospedaliera o dall’archivio delle esenzioni per patologia. Il campione è stato poi sottoposto a un valutazione di potenziale “eleggibilità” al trattamento con b-DMARDS in base a linee guida consolidate, applicando tre criteri: terapia fallimentare per 6 mesi con metotrexato (MTX) e avvio trattamento con un secondo DMARD convenzionale sistemico; trattamento da almeno 6 mesi con corticosteroide (almeno 7,5 mg. die); pazienti con controindicazione alla terapia con MTX (danno renale, interstiziopatia polmonare, danno epatico).
«Proiettando la valutazione di potenziale eleggibilità all’intera popolazione nazionale affetta da AR (circa 320 mila pazienti) ed escludendo ovviamente quelli già in trattamento con farmaci biologici - ha spiegato l’economista Luca degli Esposti (Clicon) - emerge che il 9.6% pazienti (cioè circa 30mila malati) presentano almeno uno o più dei criteri considerati di eleggibilità al trattamento con i biologici . Inoltre una quota importante dei pazienti eleggibili al trattamento con farmaci biologici risulta essere in età lavorativa (50-69 anni)».
«Lo studio è molto interessante ed è diretto ad identificare e quantificare l’annoso problema del sotto trattamento con farmaci biologici dei pazienti italiani colpiti da artrite reumatoide – commenta Luigi Sinigaglia, presidente nazionale della SIR. - Il nostro Paese è infatti agli ultimi posti in Europa per utilizzo di queste terapie. La ricerca presentata oggi ne è un ulteriore e autorevole conferma. Vanno quanto prima individuate le cause di questo fenomeno per poter così proporre soluzioni concrete nell’interesse di migliaia di nostri connazionali alle prese con una patologia grave ed invalidante».
«I medicinali biologici rappresentano una parte importante ma costosa dei nuovi farmaci da questo deriva l’importanza crescente dei biosimilari per il loro importante contributo alla sostenibilità finanziaria dei sistemi sanitari - ha sottolineato Stefano Collatina, coordinatore dell’Italian Biosimilars Group, che ha commissionato o studio. – In tutte le aree terapeutiche interessate i biosimilari hanno garantito l’accesso al trattamento a un numero sempre più ampio di pazienti, che hanno potuto beneficiare delle cure in una fase anticipata del decorso della malattia, ottenendo così anche una migliore qualità della vita. Il risparmio generato - ha concluso – dovrebbe consentire a più pazienti di essere trattati all'interno del budget esistente mentre grazie agli accordi di gain sharing gli ospedali possono trattenere il risparmio (corrispondente alla differenza tra DRG e spese) per destinarlo ad altre esigenze di trattamento».
Un tema, quello dell’accesso, che sta ovviamente a cuore alle associazioni dei pazienti. «Sono oltre cinque milioni di italiani alle prese con patologie reumatologiche, che ogni anno determinano costi sociali per oltre quattro miliardi di euro oltre che ovviamente gravi problemi di salute e invalidità - commenta Silvia Tonolo, presidente dell’Associazione Nazionale Malati Reumatici, ANMAR. - L’obiettivo prioritario delle associazioni dei pazienti e ovviamente dei clinici è quello di migliorare il livello d’assistenza e l’accesso per tutti alle cure più adeguate».
«I farmaci biotecnologici hanno migliorato le prospettive per migliaia di pazienti, offrendo un fondamentale contributo alla qualità di vita delle persone con malattie reumatiche - aggiunge Antonella Celano, presidente dell’Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare – APMAR Onlus. - I farmaci biosimilari già presenti sul mercato e quelli che si renderanno disponibili nei prossimi anni grazie all’innovazione tecnologica, rappresentano un’ulteriore opportunità per i pazienti. Occorre, però, garantire la libertà prescrittiva, assicurando la personalizzazione delle cure e la sicurezza per il paziente. Solo lo specialista può optare per l’eventuale sostituzione del farmaco, informando il paziente in ogni fase».
La presentazione dello studio Clicon sul sottotrattamento dei pazienti con AR
Rassegna Stampa Clicon Milano 11 luglio
In media una diagnosi di diabete all’età di 40 anni riduce l’aspettativa di vita di circa 6 anni negli uomini e di circa 7 anni nelle donne e che la metà di questa riduzione sia imputabile alle malattie cardiovascolari. Il dato emerge dal Rapporto del 12th Italian Diabetes Barometer Forum presentato da Italian Barometer Diabetes Observatory (Ibdo) Foundation, Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Health City Institute, I-Com Istituto per la competitività, Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni italiane e Intergruppo Parlamentare “Qualità di vita nelle città”.
Nel mondo, secondo i dati dell’iniziativa “Global Burden of Disease” della World Health Organization (WHO), nel 2017, l’iperglicemia è stata responsabile di 6,53 milioni di decessi, passando, tra le cause di morte, dal sesto posto di dieci anni fa al terzo posto fra gli uomini e al secondo fra le donne, con un aumento di circa il 27 per cento dei casi. Questa tendenza negativa è evidente anche per quanto riguarda gli anni di vita persi ponderati per disabilità, che sono aumentati del 25,5 per cento rispetto al 2007, superando così i 170 milioni. Inoltre, la prima causa di morte a livello mondiale, per entrambi i sessi, è l’ipertensione arteriosa e la quarta fra gli uomini e terza fra le donne l’eccesso ponderale, due condizioni spesso presenti nella maggioranza delle persone con diabete.
Il 53 per cento dei decessi associati a iperglicemia è dovuto a cause cardio-cerebrovascolari, in particolare 2,27 milioni di morti per malattie cardiache ischemiche e 1,19 milioni per ictus; si stima che ogni minuto nel mondo muoiano 6-7 persone per malattie cardiovascolari legate al diabete.
In Italia, secondo i dati Istat del 2017, a fronte di una prevalenza media di malattie cardiologiche tra gli over 45 del 7,5 per cento, quella tra persone con diabete è pari a circa il 17,1 per cento, ben oltre il doppio di quella rilevata per i non diabetici: 6,4 per cento. “Si tratta di un problema che interessa soprattutto gli anziani, quindi destinato a crescere in termini assoluti con l’invecchiamento della popolazione”, sottolinea Roberta Crialesi, Dirigente del Servizio Sistema integrato salute, assistenza, previdenza e giustizia di ISTAT. “Anche altri aspetti legati alle diverse realtà territoriali, al grado di istruzione e più in generale alla connotazione sociale della popolazione, influenzano la prevalenza di diabete e malattie cardiache. Le regioni del Mezzogiorno sono quelle più svantaggiate, come Calabria, Molise e Umbria e il problema è maggiormente diffuso tra le persone con basso livello di istruzione rispetto ai più istruiti. Queste analisi restituiscono un’immagine nitida dei legami tra invecchiamento della popolazione, condizioni sociali e condizioni di salute e ribadiscono la necessità di interventi urgenti e diffusi”, aggiunge.
“La percezione da parte delle persone con diabete del proprio rischio cardiovascolare sembra essere migliore in Italia rispetto al campione complessivo, dove il 46 per cento dei partecipanti si considera a rischio moderato/alto, contro il 36 per cento a livello globale. Tuttavia, la percezione del proprio rischio non sembra essere commisurata alla effettiva presenza di fattori di rischio, che è risultata estremamente più elevata”, spiega Antonio Nicolucci, Direttore CORESEARCH. “Per esempio, il 73 per cento dei partecipanti riferisce livelli elevati di glicemia, il 58 per cento una durata del diabete di oltre 5 anni, il 56 per cento dichiara di essere fisicamente inattivo, il 56 per cento di essere in sovrappeso o obeso. Questi dati suggeriscono che le persone con diabete non conoscono appieno i fattori di rischio e tendono a sottostimare la propria suscettibilità ad andare incontro a complicanze cardiovascolari. A questo riguardo risulta fondamentale inserire l’educazione sui fattori di rischio cardiovascolari come parte integrante dell’assistenza alle persone con diabete”, conclude.
Dopo dieci anni d’ebbrezza a tutta crescita, il comparto della farmaceutica - star del manifatturiero - sta affrontando «una “ristrutturazione epocale”, scoprendo nuovi modelli di business, riorganizzando i processi produttivi e interpretando a tutto campo le potenzialità offerte dalla strategia Industria 4.0».
Un diktat che in Italia si scontra con un tessuto imprenditoriale farmaceutico nazionale polverizzato in micro e piccole imprese e che - specie per il comparto dei produttori di generici - richiederebbe «una presa di coscienza collettiva da parte delle imprese; la disponibilità delle stesse a mettersi in gioco, colmando un evidente gap culturale e informativo esistente; la capacità – anche da parte dell’Associazione - di creare network e favorire l’allargamento della filiera».
A tracciare il profilo aggiornato del comparto produttivo dei farmaci degli equivalenti è Lucio Poma, responsabile scientifico Area Industria e Innovazione di Nomisma, che ha coordinato la realizzazione del primo rapporto dell’Osservatorio sul “Sistema dei farmaci generici in Italia” realizzato dalla Società di studi economici Nomisma per Assogenerici, presentato stamattina a Roma.
Lo studio - prima edizione dell’Osservatorio annuale sul comparto che prende le mosse dai tre studi del 2015, 2016 e 2017 che analizzarono rispettivamente il segmento retail, quello ospedaliero e la componente prettamente manifatturiera del comparto - è diviso in quattro parti: la prima indaga la trasformazione nel tempo della struttura produttiva delle imprese del settore; la seconda analizza la dinamica dei principali indicatori di competitività e performance nonché l’impatto del farmaceutico in termini di fatturato e di occupazione; la terza parte è dedicata all’analisi delle dinamiche del mercato, dalla spesa territoriale alla dinamica delle gare; l’ultima, infine, tasta il polso alla voglia di cambiamento delle imprese associate ad Assogenerici, sul tema di Industria 4.0, una delle sfide più importanti degli ultimi anni per il settore manifatturiero.
Sotto la lente i dati riferiti all’universo dell’apparato produttivo farmaceutico nazionale, quelli emersi dalla Suvey su Industria 4.0 che ha coinvolto le imprese associate ad Assogenerici (49 imprese) e infine quelli provenienti dalle banche dati ISTAT, AIDA, OsMed, ICE, IHS, IQVIA, Bureau-Van Dijk e Nomisma.
Un comparto ad alto impatto economico che non compensa più costi e ricavi
Il fotofinish delinea un comparto delle imprese dei generici composto da imprese relativamente giovani (quasi metà sono nate nel ventennio 1980-1999), di media dimensione (il 46% delle imprese conta da 50 a 249 addetti), più strutturate rispetto al totale delle imprese farma (il 41 % delle aziende dei generici sono SPA), che realizzano un impatto sull’economia del Paese pari a 8 miliardi di euro (2,8 miliardi di effetto diretto della produzione, 2,7 miliardi di effetto indiretto, legato alla acquisizione di beni e servizi e 2,6 miliardi di effetto indotto tra redditi e consumi delle famiglie) e vantano anche un significativo effetto occupazionale con oltre 8mila dipendenti diretti e un impatto totale stimato di oltre 33mila occupati (effetto indiretto di 11,5mila dipendenti; effetto indotto di 13,4mila).
L’identikit fornito dall’analisi Nomisma restituisce fin qui l’immagine di un comparto perfettamente allineato alle performance del farmaceutico nel suo complesso, considerato come uno dei settori di punta della manifattura italiana. Ma è sull’analisi di costi e ricavi che i conti non tornano. Le aziende dei generici fanno più produzione e più ricavi - cresciuti del 67% contro il 25,7% nelle imprese totali del comparto farma - ma non recuperano il gap sulla crescita dei costi di produzione che, tra il 2010 e il 2016, aumentano del 69% contro il 25,7% nelle imprese totali del comparto farma. Il fenomeno è dovuto essenzialmente ad una sempre maggiore diffusione degli equivalenti, cui corrisponde un analogo aumento dei ricavi che per le imprese dei generici sono aumentati del 67% contro il 22,8% delle imprese totali farma. Un aumento apparentemente considerevole che tuttavia resta più basso di quello dei costi di produzione di due punti percentuali (+ 67% i ricavi, + 69% i costi). La voce che pesa di più è quella delle materie prime, che nell’ultimo anno considerato (2015/2016) aumenta del 4,2%, mentre diminuisce dello 0,7% per il totale delle imprese farma. Ma aumentano anche, sempre nell’ultimo anno (2016/2015), del 7.6%, i costi del personale, in relazione alla crescente qualità delle risorse umane impiegate, in particolare il personale dedicato alla verifica di qualità.
La sintesi della diversità di andamento degli indicatori economici tra imprese genericiste e totale delle imprese farma è brillantemente riassunta dall’andamento dell’EBITDA (Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization): dal 2010 al 2016 nelle imprese dei generici cala del 45%, con una flessione di ben 25 punti soltanto nell’ultimo anno; nel totale delle imprese farma cresce del 6%, a partire dal 2014.
«Dal 2010, la continua pressione verso il basso dei prezzi dei farmaci generici ha costantemente eroso la marginalità lorda delle imprese del comparto», ha commentato Enrique Häusermann, presidente Assogenerici. «Il pericolo è che si sia toccato un “livello critico” dei prezzi, al di sotto del quale la sostenibilità economica di molte imprese potrebbe risultare a rischio».
Gare al massimo ribasso: fuga dai farmaci più vecchi
Un rischio che emerge in modo ancora più evidente dall’analisi delle dinamiche dei meccanismi di gara che presiedono a tutte le forniture farmaceutiche ospedaliere.
Anche in questo caso i segnali di “sofferenza” emergono dall’analisi del rapporto tra volumi e valori: tra il 2016 e il 2018, infatti, l’incidenza in volume dei generici sulla farmaceutica ospedaliera è cresciuta di quattro punti percentuali (dal 23,4% al 27,3%), ma la quota in valore è aumentata solo dello 0,3%. Né è andata meglio ai branded off patent, cresciuti di tre punti in volumi (dal 36,4% al 39,2%) e diminuiti di quattro punti in valori (dall’8,8% al 4,9%).
Mal comune non è però mezzo gaudio: il progressivo ampliamento dei volumi e alla costante riduzione della spesa sono lo specchio di una dinamica che tra il 2015 e il 2018 ha visto aumentare il numero di gare aperte bandite ma non la media dei lotti in gara, mentre risulta decisamente in aumento la percentuale dei lotti non aggiudicati (dal 21,5% del 2010 al 24,4% del 2018).
A precipitare del resto è anche il tasso di partecipazione delle imprese alle gare, inteso come rapporto tra numero di offerte complessivamente presentate nell’anno e il numero di lotti banditi nello stesso anno: si passa dal 3,2 del 2011 all’1,25 del 2018.
Una ulteriore conferma di flessione della concorrenza dettata dalla pressione sui prezzi si ottiene incrociando il numero medio di offerte per lotto aggiudicato con la data di scadenza brevettuale dei medicinali in gara: a dieci anni dalla scadenza del brevetto il tasso di partecipazione risulta quasi azzerato. Una conferma del fatto che le gare al massimo ribasso rischiano nel tempo di fare fuoriuscire dal mercato numerose imprese, soprattutto PMI, determinando la contrazione del numero di operatori in grado di fornire il mercato e la conseguente minore affidabilità delle forniture che già oggi riverbera - annota Nomisma - «nel ricorrente fenomeno delle carenze o delle temporanee indisponibilità di molti farmaci essenziali, problema ricorrente per il mercato farmaceutico in generale, e ospedaliero in particolare».
Risolvere il rebus Industria 4.0 per “ringiovanire” le imprese
Come e quanto si concilia il concetto di Smart Factory con il profilo di un comparto che la survey su Industria 4.0 realizzata da Nomisma (27 aziende rispondenti, tra cui figurano tutte le grandi aziende aderenti ad Assogenerici) descrive come «prioritariamente orientato verso la riduzione dei costi di produzione» per far fronte alla dinamica competitiva dei prezzi, con una produzione tendenzialmente omogenea, mirata alla ricerca di economie di scala e di specializzazione produttiva, con uno scarso livello di flessibilità e pochi impianti modulari?
Poco o nulla, sembrerebbe: solo il 4% delle imprese considera Industria 4.0 come un fattore di competitività o un punto di forza dell’impresa. Eppure - segnala Nomisma - «se da un lato alcuni vantaggi di Industria 4.0, quali ad esempio il real time production o la mass customization, possono essere, al momento, meno impattanti per la peculiarità produttive delle imprese di farmaci generici, altri aspetti possono, nel tempo, costituire importanti vantaggi competitivi per meglio affrontare le sfide future del mercato globale».
Dalla survey emerge però che oltre metà delle aziende intervistate non ha utilizzato nessuna delle 11 principali azioni di intervento previste dal piano nazionale impresa 4.0. La misura maggiormente utilizzata dalle aziende del campione (19%) è quella relativa agli iper e superammortamenti. Al secondo posto (11%) figura il ricorso alla Nuova Sabatini, agevolazione rivolta alle PMI per l’accesso al credito. In coda alle preferenze (7%) il credito d’imposta per R&S e il Patent box.
Maggiore interesse sembra manifestarsi nei confronti delle nuove tecnologie abilitanti individuate dal Ministero dello Sviluppo Economico nell’ambito di Industria 4.0 (Internet of Things, Big data; manifattura additiva; realtà aumentata a supporto dei processi produttivi; simulazione per ottimizzare i processi; robot collaborativi interconnessi; integrazione verticale e orizzontale lungo la catena del valore; internet industriale; cloud computing; cyber security): anche se ancora non le frequenta a sufficienza, il 30% delle imprese interpellate ritiene che esse saranno significative per la competitività nell’arco dei prossimi cinque anni.
Tra principali ostacoli alla loro diffusione la mancanza di informazioni adeguate e i dubbi sul rapporto costi-benefici, ma anche la complessità delle procedure d’accesso ai finanziamenti e la difficoltà di raggiungimento dei necessari parametri abilitanti, fattore quest’ultimo che impatta soprattutto sulle aziende di minori dimensioni.
In questo scenario - prendendo spunto anche dalle indicazioni delle imprese - l’analisi Nomisma chiude dettando una sorta di “politerapia”. Da un lato si sottolinea la necessità di utilizzare o migliorare gli attuali strumenti di policy, incrementando ad esempio il ricorso al patent box (nonostante la tassazione più elevata , pari al 13,9% rispetto a Paesi competitor come Belgio 5%, Irlanda 6,25, Regno Unito 10%) o al credito d’imposta per R&S (anche se in Italia lo si applica solo sulla spesa incrementale rispetto all’anno prima e non sull’intera spesa effettuata come in Francia, Regno Unito e Belgio) ma anche agendo sulla leva fiscale.
Si segnala la necessità di accrescere il livello della digitalizzazione della P.A. e di sfruttare l’’enorme potenzialità offerta dall’introduzione della deroga al Supplementary Protection Certificates (SPC), capace di aumentare in maniera significativa, nei prossimi anni, le possibilità di sviluppo del mercato delle imprese dei generici, creando nuove possibilità dimensionali e di riorganizzazione della filiera. E si consiglia nuovamente di utilizzare al meglio il potenziale offerto da Industria 4.0.
Proprio la radicale riorganizzazione produttiva del comparto che inevitabilmente ne discende lascia presagire il percorso più tortuoso: «Le tecnologie abilitanti - conclude infatti lo studio Nomisma - possono offrire margini di miglioramento, in termini di efficienza, velocità, qualità e differenziazione produttiva senza precedenti. Tuttavia, dal momento che costituisco un’innovazione dirompente, prima devono essere culturalmente assimilate dalle imprese e dalla filiera produttiva nel suo complesso».
Di qui il ruolo assegnato principalmente all’Associazione rappresentativa del comparto chiamata a fare scouting, a lanciare azioni pilota su imprese singole o in gruppo, a creare network anche ricorrendo all’ampliamento della filiera, promuovendo legami anche con imprese non associate per facilitare la creazione dell’industria collaborativa e la nascita di cluster tecnologici di imprese.
Al mancato utilizzo degli strumenti di policy esistenti si sommano poi fattori di competizione e di mercato che rallentano il percorso di crescita delle imprese di farmaci generici. Continua ad essere presente una eccessiva pressione sui prezzi dei farmaci generici che unita allo straordinario incremento dei costi di produzione erode la marginalità. Si pone quindi sul tavolo una delle questioni di policy più rilevanti: «Lo stimolo della competizione, attraverso il sistema dei prezzi, è sicuramente uno dei punti cardine delle moderne economie di mercato, che comporta indiscutibili benefici», segnala lo studio Nomisma. Tuttavia, con una competizione “eccessiva” i vantaggi di breve periodo «potrebbero risultare molto inferiori agli svantaggi di medio termine. Prezzi troppo bassi potrebbero minare la sostenibilità industriale di molte imprese del comparto: anche di quelle efficienti che operano in sintonia con il mercato». Per questo - conclude – è indispensabile intraprendere la strada del confronto tra istituzioni e imprese “finalizzato a rintracciare quei parametri che possano garantire un’adeguata concorrenza nel medio termine, senza minare la sostenibilità industriale”.
Un gruppo di studiosi italiani del CNR crea la "magia" che ingabbia e dà forma all'acqua. A svelare il segreto della pellicola sottilissima e biodegradabile - un polimero - capace di rivestire volumi di acqua che rimangono così racchiusi e sigillati è stato un gruppo di ricercatori dell’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti (Cnr-Isasi), dell’Istituto di polimeri compositi e biomateriali (Cnr-Ipcb) e il Center for Advanced Biomaterials for Healthcare dell’Istituto italiano di tecnologia di Napoli (Cabhc-Iit) in un articolo pubblicato sulla rivista Science Advances.
Il processo di packaging che consente di controllare, per l’appunto, la ‘forma dell’acqua’ - spiega un comunicato del CNR - si realizza istantaneamente e in modo completamente spontaneo, a partire da una piccola goccia di soluzione polimerica messa in contatto con la superfice del liquido da confezionare.
“Con questo processo possiamo cioè creare vestiti ‘su misura‘ a prescindere dalla forma assunta dall’acqua. Il packaging, infatti, avviene sia nel caso di una goccia appoggiata su una superficie, sia nel caso di una goccia pendente da un orifizio o di un film liquido depositato all’interno di un contenitore: in quest’ultimo caso il polimero riveste e sigilla tutta la superficie libera del pelo dell’acqua”, spiegano Sara Coppola e Pietro Ferraro ricercatori Isasi.
L’acqua è una delle sostanze più presenti sul nostro pianeta, copre due terzi della superficie terrestre, è fondamentale per la sopravvivenza di tutti gli esseri viventi a partire dai micro-organismi. “E per garantire il funzionamento di complessi processi industriali e di trasformazione, quali quelli della farmaceutica e dell’agroalimentare”, proseguono i ricercatori. “Ci si aspetta pertanto che i risultati di queste ricerche trovino applicazione in molte fasi dei più diversi ambiti a partire da quelli biomedicali, visto che la confezione può essere costituita da un polimero biodegradabile e biocompatibile, due requisiti fondamentali per questo settore. Ma riuscire a manipolare piccoli volumi d’acqua e, soprattutto, creare dei rivestimenti che si adattino alle complesse forme che il liquido può assumere è un vantaggio notevole per molti processi nei quali su diverse scale, dal centimetro fino a dimensioni del nanometro (miliardesimo di metro), sono importanti la manipolazione, ingegnerizzazione e funzionalizzazione dei materiali”.
“Inoltre, possono essere rivestiti completamente anche volumi di gel o in generale di materiale altamente idratato, come tessuti biologici di una qualsiasi forma quali sfere, cubi, protesi, organi complessi, per trasporto, preservazione e protezione da agenti esterni”, commenta Paolo Netti coordinatore del centro Iit di Napoli. “Il solvente viene estratto dall’acqua e la variazione della tensione superficiale guida la formazione istantanea del film che si espande in modo conforme alla geometria assunta dal liquido. Il processo avviene in qualche secondo e, grazie alla lenta estrazione del solvente, si genera un film omogeneo e non poroso. Controllando la quantità di polimero impiegata è possibile controllare lo spessore del rivestimento prodotto”.
“Il processo sviluppato è al contempo innovativo e semplice, e potrà consentire di confezionare sistemi ad alto contenuto di acqua con diversi tipi di materiali polimerici. In tal modo sarà possibile realizzare rivestimenti caratterizzati da proprietà (trasparenza, permeabilità ai gas, proprietà meccaniche) opportunamente modulate in funzione dell’applicazione finale”, conclude Gennaro Gentile, ricercatore Ipcb.
Non guardare all’utilizzo dei biosimilari come unica fonte di risparmio economico, ma creare invece un percorso condiviso per trovare insieme le migliori strategie che garantiscano ai cittadini l’appropriatezza terapeutica, al clinico la libertà prescrittiva e agli enti pubblici la sostenibilità economica. È questa l’indicazione che arriva dal XXII Congresso Nazionale del Collegio Reumatologi Italiani (CReI), svoltosi nei giorni scorsi a Roma, nel corso del quale è stato presentato il Position Paper 2.0 del CREI sui bosimilari.
«Nel 2016 avevamo già pubblicato un nostro Position Paper su questi prodotti e sul loro utilizzo, sottolineando che una condotta appropriata può consentire ai pazienti l’accesso alle cure salvaguardando l’eguale diritto di tutti i cittadini ed evitando i danni disabilitanti delle patologie grazie a una terapia adeguata e soprattutto precoce - ha spiegato Gilda Sandri, Vicepresidente del CReI e reumatologa presso la Struttura Complessa di Reumatologia del Policlinico di Modena. - Il nuovo documento rafforza questi concetti ed è in linea con la pubblicazione del Position Paper dell’AIFA sull’uso dei biosimilari, che sostiene che sono intercambiabili sia per i pazienti naive sia per quelli già in cura con gli originator».
L’impatto delle malattie reumatiche, che colpiscono più di 5milioni di italiani, e i costi sociali ed economici correlati di tali terapie sono altissimi, assorbendo lo 0,2% del Pil - è stato ricordato nel corso dei lavori - e l’alternativa tra farmaci biologici e biosimilari investe il tema della sostenibilità dei servizi sanitari nazionale e regionali. Sì dunque all’introduzione dei biosimilari, da favorire il più possibile individuato un percorso che concili la libertà prescrittiva, la necessità di risparmio economico e l’informazione da dare ai pazienti.
«Tutte le terapie vanno condivise con il paziente - ha affermato ancora la Sandri . - Se il clinico gli propone uno switch è perché i dati dimostrano che lo si può fare, ma ai pazienti va spiegato per bene cosa vuole dire biosimilare, non deve passare il messaggio che si tratti di farmaco meno efficace».
Ma nella ricetta del CReI un ruolo di primo piano spetta anche alle buone pratiche destinate a realizzare la migliore appropriatezza prescrittiva e organizzativa: «Ogni Centro prescrittore dovrebbe garantire l’istituzione del registro paziente, magari mediante un software dedicato, producendo una reportistica periodica sui pazienti trattati e sui farmaci utilizzati; fare rete con le ASL e le Aziende Ospedaliere; avere un aggiornamento continuo da parte delle Società scientifiche del settore, al di fuori di contesti promossi dalle singole aziende farmaceutiche. Introdurre un budget di spesa diretta e indiretta per i centri prescrittori al fine di responsabilizzarli al contenimento di queste - ha concluso la vicepresidente del Collegio dei Reumatologi. - Mentre il responsabile del Centro prescrittore dovrebbe verificare l’appropriatezza prescrittiva dei propri collaboratori e sovraintendere al loro aggiornamento professionale annuale, formandoli agli aspetti scientifici ma anche alle ricadute socio-economiche della propria prescrizione».
Sulla stessa lunghezza d’onda l’articolo “Biosimilars: New guns for the treatment of rheumatologic patients?”, a firma di Daniela Marotto, Angela Ceribelli e Piercarlo Sarzi Puttini pubblicato nel primo numero di Beyond Rheumatology, la nuova rivista scientifica presentata dal CReI a metà aprile, che fa dei dati della real life e del concetto di multidisciplinarietà il proprio punto di forza e punta a colmare un vuoto nelle pubblicazioni scientifiche di settore, grazie alle firme di nomi illustri della reumatologia e di altre branche mediche che si occupano, negli ambulatori e negli ospedali del territorio, della cura dei più dei 5milioni di malati reumatici in Italia.
«I dati scientifici attualmente disponibili indicano che un solo passaggio da originatore e biosimilare è sicuro ed efficace, anche se è necessario tener conto prima di tutto della sicurezza e dell'opinione del paziente - scrivono. - Tuttavia, non ci sono ragioni scientifiche per attendersi che il passaggio tra biosimilari dello stesso originatore possa comportare risultati clinici diversi. I dati esistenti suggeriscono che il trattamento di un paziente con un biosimilare approvato sia paragonabile a quello di un paziente trattato con l'originatore».
La Commissione Europea ha pubblicato sul proprio portale web un comunicato inerente la conformità agli standard qualitativi UE dei principi attivi prodotti nella Repubblica di Corea: sale così a sette il numero dei paesi terzi riconosciuti come dotati di una regolamentazione equivalente a quella europea e includente i principi delle buone pratiche di fabbricazione (GMP) a garanzia della qualità dei principi attivi destinate ai medicinali per uso umano immesse sul mercato dell'UE. La lista aggiornata comprende dunque, oltre alla Corea, anche Australia, Brasile,Israele, Giappone,Svizzera e Stati Uniti.
Il Ministry of Food and Drug Safety (MFDS) della Repubblica di Corea aveva richiesto nel 2015 la valutazione del proprio quadro normativo e delle attività di controllo. Tale valutazione, espletata mediante due audit condotti dalla Commissione nel 2016 e nel 2018, ha dimostrato che il quadro legislativo della Repubblica Coreana inerente la produzione di sostanze attive è tale da garantire un livello di sicurezza ed efficacia equivalente a quello dell'Unione.
L'Europa impone come è noto regole molto rigide non solo sui medicinali prodotti nel mercato interno ma anche sui prodotti importati e sui principi attivi utilizzati per produrli.
A tale proposito la direttiva FMD (Falsified Medicines Directive), cardine del nuovo sistema UE di contrasto alla contraffazione farmaceutica in vigore dal 9 febbraio in 31 Stati dello spazio economico europeo (SEE) – introduce norme precise per l’importazione di sostanze attive in tutti i Paesi UE, prevedendo che essi possano essere importati solo se accompagnati da un certificato rilasciato dalla competente autorità per le esportazioni del Paese di provenienza che certifichi standard di produzione e verifiche sul sito produttivo equivalenti a quelli previsti in Europa. Proprio in attuazione della Direttiva FMD l’industria farmaceutica europea ha finanziato la creazione dell’EMVO, l’organizzazione europea di verifica dei medicinali per consentire ai farmacisti di ogni Paese di analizzare ogni confezione di medicinale soggetto a prescrizione commercializzato in Europa, proprio per impedire che medicinali falsificati eventualmente immessi sul mercato possano essere dispensati ai pazienti europei.
Merita di essere ricordato anche che tutti farmaci e i principi attivi importati nella comunità sono comunque sottoposti a test che ne verificano la conformità alle regole dell’UE e gli ispettori europei sottopongono a regolare verifica i siti di produzione anche in territorio extra-UE.
Gli eventuali rilievi sollevati dagli ispettori determinano obbligatoriamente e automaticamente un intervento correttivo da parte delle aziende: la gamma degli strumenti a disposizione degli ispettori varia in relazione alla gravità del problema produttivo verificato e può arrivare fino alla chiusura del sito produttivo o al divieto di importazione dallo stesso (in caso di impianti extra-UE) quando si individuino gravi rischi per la salute o la sicurezza dei pazienti in relazione al mancato rispetto delle GMP.
E le stesse regole sulla verifica di conformità alla normativa comunitaria si applicano anche alle strutture in cui vengono svolti i trial clinici finalizzati all’approvazione dei medicinali e anche alle aziende che producono in conto terzi (contract manufacturing). Infine, l’Europa monitora in modo approfondito l’uso dei farmaci attraverso una intensa e costante attività di farmacovigilanza, processo attraverso il quale operatori sanitari e pazienti possono allertare le Agenzie regolatorie nazionali ed europea su qualsiasi problema associato all’uso di un medicinale.
La desensibilizzazione per i bambini con allergia all’arachide accresce il rischio di anafilassi e di altre reazioni gravi. Il dato emerge da uno studio di revisione condotto da 5 Centri internazionali – l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù per l’Europa - che mette in discussione la sicurezza della cosiddetta immunoterapia orale per le allergie alimentari. La ricerca è stata appena pubblicata sulla rivista scientifica The Lancet.
I ricercatori hanno confrontato i risultati di 12 indagini cliniche sull’immunoterapia orale per l’arachide (per un totale di oltre 1.000 pazienti coinvolti) scoprendo che i bambini sottoposti a desensibilizzazione avevano avuto il triplo degli episodi di anafilassi rispetto al gruppo che evitava l’allergene senza trattamenti o a cui era stato somministrato un placebo.
L’immunoterapia orale, o desensibilizzazione, è un trattamento utilizzato per rendere meno sensibile l’organismo all’alimento che scatena l’allergia attraverso la somministrazione ripetuta nel tempo e clinicamente controllata di quantità crescenti dell’allergene, fino ad arrivare a dosi di mantenimento. L’obiettivo è innalzare la soglia di tolleranza, ridurre il rischio di reazioni gravi in caso di contatto involontario e, in generale, migliorare la qualità di vita.
Efficacia e sicurezza dell’immunoterapia orale per l’allergia all’arachide sono state oggetto di molti studi. 12 di questi, i più recenti e scientificamente rilevanti, sono stati raggruppati e analizzati da un team di revisione internazionale coordinato dalla McMaster University, in Canada. Dal confronto dei dati riguardanti i 1.041 pazienti tra i 5 e i 12 anni arruolati nelle ricerche, è emerso che i bambini sottoposti a desensibilizzazione avevano avuto 222 episodi di anafilassi contro i 71 di quelli non trattati. L’iniezione di adrenalina si era resa necessaria 82 volte tra i pazienti trattati contro le 32 dei non trattati. 119, invece, i casi di altre reazioni allergiche (vomito, orticaria, coliche addominali, problemi respiratori) per i bambini trattati contro i 62 dei non trattati.
«Con il nostro studio di revisione abbiamo evidenziato che l’immunoterapia orale comporta più rischi che benefici ai bambini con allergia alimentare. La metanalisi ha riguardato nello specifico l’arachide, ma la conclusione è verosimilmente applicabile a tutti gli altri allergeni alimentari» sottolinea Alessandro Fiocchi, responsabile di Allergologia del Bambino Gesù. «La maggiore incidenza di reazioni gravi, come l’anafilassi, dipende da diversi fattori. Innanzitutto gli allergeni alimentari innescano risposte infiammatorie più violente rispetto a quelli respiratori. Ci sono poi molte variabili, come ad esempio un raffreddore, uno stato d’ansia, una intensa attività fisica, che influenzano il modo in cui il corpo interagisce con la terapia. In questi casi i livelli di protezione raggiunti con la desensibilizzazione possono abbassarsi e la somministrazione di dosi di allergene prima ben tollerate può scatenare una reazione avversa».
L’allergia alimentare colpisce circa 5 bambini su 100, con un picco nei primi 3 anni di vita, ed è scatenata dalle proteine contenute in alcuni cibi che - per un errore del sistema immunitario - vengono riconosciute come minacce, innescando la reazione infiammatoria.
La forma più grave di reazione allergica ad un alimento è l’anafilassi. Colpisce soprattutto i bambini e gli adolescenti e in età pediatrica ha una prevalenza tra l’1 e il 3%. I suoi sintomi si sviluppano molto rapidamente: basta l’ingestione, il contatto, o la semplice inalazione di minime quantità dell’allergene per scatenare orticaria, edema e gonfiore del volto, prurito e gonfiore delle estremità, rinite, congiuntivite, mancanza di fiato, tosse convulsa. In circa 3 casi su 100 si arriva alla riduzione della pressione arteriosa e allo shock anafilattico. Nel 2018, in Italia, sono stati registrati almeno 2 casi di morte per anafilassi alimentare, una a Roma e una a Pisa.
Alcune allergie alimentari, come quelle al latte e all’uovo, nel 90-95% dei casi si risolvono spontaneamente entro i 10 anni. La frutta a guscio (noci, nocciole), le arachidi e il pesce sono, invece, allergeni più aggressivi e, salvo poche eccezioni, chi è allergico a questi alimenti rimarrà tale per tutta la vita. In particolare, nei Paesi sviluppati l’allergia all’arachide colpisce circa il 2% dei bambini e l'1% degli adulti.
Alla luce dei risultati della revisione pubblicata su The Lancet, ad oggi la soluzione più sicura per gli allergici alimentari torna ad essere la prudenza nell’evitare il contatto con il cibo “incriminato”. «Se però le attuali forme di immunoterapia orale non mantengono la promessa di migliorare la qualità della vita dei pazienti, la ricerca si sta muovendo attivamente in diverse direzioni» spiega il prof. Fiocchi. «Tra queste, forme di immunoterapia orale con allergeni modificati in modo da perdere la loro pericolosità acuta; immunoterapie per alimenti eseguite mediante l’applicazione di cerotti sulla pelle e l’uso di farmaci biologici che possano modificare la risposta immunitaria». Proprio su fronte dei farmaci biologici, un recente studio del Bambino Gesù ha documentato che i bambini trattati con anticorpi anti-IgE per l’asma grave migliorano in modo sensibile anche la loro tolleranza agli alimenti allergizzanti.
Roberto Rustichelli, magistrato ordinario, nominato il 20 dicembre scorso Presidente dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato dal presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e dal presidente della Camera, Roberto Fico, avendo ricevuto il 17 aprile 2019 dal C.S.M. la autorizzazione al collocamento fuori ruolo, oggi si è insediato alla presidenza dell'Antitrust.
“Onorerò l’incarico affidatomi con gli stessi valori di indipendenza, di imparzialità e di terzietà a cui mi sono ispirato nei miei tanti anni di attività in magistratura” dichiara Rustichelli.
“Continuerò a ritenere le Istituzioni un faro per la mia vita professionale e personale, che ora mi vede in un nuovo ruolo di cui sento la grande responsabilità - conclude - per garantire l’indipendenza dell’Autorità, nonché per tutelare l’interesse dei cittadini e delle imprese”.
Roberto Rustichelli, nato nel 1961 a Ravenna, è laureato in Giurisprudenza e in Scienze economiche e gestionali. Al momento della nomina era Presidente del Collegio B del Tribunale delle Imprese di Napoli con competenza, tra l'altro, sulle controversie risarcitorie per violazione della normativa antitrust per l'intero Sud Italia, nonché Presidente di Sezione della commissione Tributaria Provinciale di Napoli. Ha ricoperto il ruolo di Vice capo di Gabinetto del ministro delle Attività Produttive ed è stato Consigliere giuridico presso la Presidenza del Consiglio dei ministri in vari governi. Dal 2009 al 2013 è stato anche Membro del Comitato Nazionale per la lotta contro le frodi comunitarie.
Un’alterazione nell’espressione dell’interferone, ovvero di quel gruppo di proteine che le cellule del sistema immunitario producono in presenza di virus, può essere alla base dello sviluppo di diverse malattie autoimmuni. In uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Autoimmunity, i ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), in collaborazione con l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e con l’Ospedale Sant’Andrea di Roma, e grazie al sostegno della Fondazione Italiana Sclerosi Multipla (FISM), hanno scoperto nei linfociti B e nei monociti delle persone con sclerosi multipla (SM), alterazioni in diversi geni regolati dall’interferone.
“Studi svolti in precedenza avevano già individuato il ruolo significativo dei linfociti B nei meccanismi patogenetici della malattia – spiega Eliana Marina Coccia dell’ISS, a capo del progetto multicentrico FISM – La nostra indagine si è spinta oltre e ha identificato anomalie nei linfociti B e nei monociti che alterano profondamente i processi in cui sono coinvolti gli interferoni. Questi dati, se da un lato confermano l’importanza del trattamento delle forme recidivanti-remittenti e progressive della SM con anticorpi monoclonali diretti selettivamente contro i linfociti B, dall’altro aprono nuove prospettive verso cui indirizzare futuri sforzi per la messa a punto di terapie innovative centrate su questa popolazione linfocitaria”. I ricercatori dell’ISS hanno isolato sia i linfociti B che i monociti da campioni di sangue periferico di persone con SM senza trattamenti in corso e da soggetti di controllo appaiati per sesso ed età. Di questi tipi cellulari i ricercatori dell’Ospedale San Raffaele hanno analizzato i profili di espressione genica (trascrittoma) con l’ausilio del database Interferome, che è stato sviluppato dal collaboratore allo studio il Professore Paul Hertzog della Monash University in Australia e che raccoglie in maniera sistematica tutti i geni regolati dagli interferoni descritti nella letteratura scientifica mondiale.
“Questo progetto FISM ha consentito di mettere in luce numerose disregolazioni trascrittomiche nei geni regolati dagli interferoni nelle persone con SM – spiega Cinthia Farina dell’IRCCS Ospedale San Raffaele – in particolare in questo studio sono state trovate anomalie geniche specifiche per tipi cellulari distinti, indicando così quelle sulle quali indagare in vista della ricerca di nuovi processi patologici e di marcatori di malattia”. “Inoltre, l’identificazione selettiva nei linfociti B di alterazioni di alcune risposte anti-virali – conclude Martina Severa dell’ISS – rende verosimile l’ipotesi in base a cui il virus di Epstein-barr abbia un forte impatto, negli individui con SM, sul controllo della patologia. Questo virus è molto diffuso (oltre il 90% degli adulti ne risulta infettato, spesso senza alcuna conseguenza), rimane latente proprio nei linfociti B della memoria per tutta la vita, e sembra aumentare il rischio di sviluppare malattie autoimmuni, tra cui la SM, in alcuni soggetti geneticamente predisposti.
Lo studio è stato possibile grazie un finanziamento di FISM assegnato all’ISS e all’IRCCS Ospedale San Raffaele. Hanno inoltre partecipato allo studio: l’Ospedale Sant’Andrea di Roma, l’Università di Roma La Sapienza; l’IRCCS San Raffaele-Pisana di Roma; la Monash University di Clayton (Australia); l’Istituto Neurologico Mediterraneo (INM) Neuromed, Pozzilli (Isernia)
Nonostante tutti gli sforzi fatti nei Paesi della Regione Europea dell’OMS, la percentuale di obesità tra i bambini rimane alta: maggiore tra chi non è stato allattato al seno rispetto a chi lo è stato (16,8% vs 9,3%) e con picchi di obesità grave soprattutto tra i maschi, che in Italia toccano il 4,3%.
E’ questo lo scenario fotografato da due studi, presentati nel corso dello European Congress on Obesity, che si sta svolgendo in questi giorni a Glasgow (Regno Unito), effettuati con i dati della Childhood Obesity Surveillance Initiative (COSI) dell’OMS, a cui l’ISS partecipa con la sorveglianza OKkio alla SALUTE rappresentando l’Italia. L’indagine COSI per più di 10 anni ha misurato, in oltre 300 mila bambini ogni tre anni, il trend di sovrappeso e obesità tra gli alunni della scuola primaria (6-9 anni). Il primo studio ha rilevato tra i 21 paesi partecipanti (637 mila bimbi circa monitorati in tre raccolte dati) la presenza tra l’1% in Svezia e Moldavia e il 5,5% a Malta di bambini con obesità grave, cioè ad alto rischio di complicanze per la salute. La prevalenza di obesità severa, maggiore tra i maschi, varia significativamente da paese a paese e tocca le punte più alte nel Sud Europa.
In Italia, adottando le classificazioni OMS, la percentuale è pari a 4,3%, con una tendenza alla diminuzione negli anni. Il secondo studio mostra che tra i bambini allattati al seno per almeno sei mesi ci sono meno obesi rispetto ai piccoli che sono stati allattati al seno per meno di sei mesi e rispetto a quelli che non lo sono stati affatto. In media il tasso di obesità tra i bimbi non allattati al seno è pari al 16,8%, tra quelli allattati per meno di 6 mesi è del 13,2% e tra coloro che invece hanno preso il latte della mamma più a lungo diminuisce a 9,3%. Il fenomeno è stato osservato in 22 paesi che hanno partecipato alla quarta raccolta dati del COSI svoltasi tra il 2015 e il 2017 coinvolgendo più di 100 mila bambini.
“L’obesità nei bambini rappresenta uno dei principali problemi di sanità pubblica dei nostri tempi – afferma Angela Spinelli, Direttore del Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la Promozione della Salute (ISS) – Si tratta senza dubbio di un fenomeno multifattoriale, con possibili gravi conseguenze a lungo termine sulla salute e sulla società intera. Come tale va affrontato prima di tutto attraverso la prevenzione, a cominciare dall’allattamento per poi proseguire con programmi e iniziative nei bambini e giovani che aiutino ad effettuare scelte salutari. Ma nel caso di obesità grave bisogna garantire anche i servizi per aiutare questi bambini e le loro famiglie a contrastarla. In Italia negli ultimi anni abbiamo osservato una lieve diminuzione del fenomeno ma è ancora una sfida aperta”.
Doppio addio per Mauro Giombini che questo mese conclude il proprio lungo mandato in Comifar - prima come AD in Comifar Distribuzione SPA poi come Presidente della Holding del Gruppo, leader della distribuzione farmaceutica in Italia - e si dimette dalla carica di Presidente ADF.
A Giombini, che ha presieduto ADF da maggio 2014, succede, a termini di Statuto, il vice-Presidente Alessandro Morra, fondatore e Presidente della Sofarmamorra SPA, con il compito di condurre in tempi brevi il Consiglio Direttivo alla nomina del nuovo Presidente.
Serve un'azione immediata, coordinata e ambiziosa per scongiurare una potenziale crisi da resistenza ai farmaci che sarebbe a dir poco disastrosa. A sostenerlo il Gruppo di coordinamento delle Nazioni Unite sulla resistenza antimicrobica che ha redatto per le Nazioni Unite il rapporto "No Time To Wait: securing The Future From Drig-Resistant Infections": "Se non si interviene - scrivono - le malattie resistenti ai farmaci potrebbero causare 10 milioni di morti ogni anno entro il 2050 e danni all'economia catastrofici come quelli causati dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009".
Secondo gli esperti, entro il 2030, la resistenza antimicrobica potrebbe ridurre in estrema povertà fino a 24 milioni di persone. Attualmente sono almeno 700.000 le persone che muoiono ogni anno a causa di malattie resistenti ai farmaci, tra queste 230.000 muoiono di tubercolosi che non risponde alle cure. Ma la situazione si sta progressivamente aggravando: sempre più malattie comuni, tra cui infezioni del tratto respiratorio, infezioni trasmesse sessualmente e infezioni del tratto urinario, non sono più curabili; le procedure mediche salvavita stanno diventando molto più rischiose e i nostri sistemi alimentari sono sempre più precari. "Il mondo sta già pagando le conseguenze economiche e sanitarie di medicine cruciali che diventano inefficaci - concludono . - Senza investimenti da parte dei paesi in tutte le fasce di reddito, le generazioni future dovranno affrontare gli effetti disastrosi di una resistenza antimicrobica incontrollata".
Ancora una volta - riconfermando che salute umana, animale, alimentare e ambientale sono strettamente interconnesse - il rapporto sollecita l'adozione dell'approccio "One Health", sollecitando i Paesi ad istituire sistemi normativi più rigorosi e sostenere programmi di sensibilizzazione per un uso responsabile e prudente degli antimicrobici da parte dei professionisti di salute umana, animale e vegetale, ad investire nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie per combattere la resistenza antimicrobica e ad abolire l'uso di antimicrobici d'importanza critica come promotori della crescita in agricoltura.
Convocato su richiesta dei leader mondiali dopo la prima riunione ONU ad alto livello sulla resistenza agli antimicrobici nel 2016, il gruppo di esperti ha riunito partner di tutte le Nazioni Unite, organizzazioni internazionali, esperti con esperienza in materia di salute umana, animale e vegetale, ma anche di alimentazione umana ed animale, di commercio, dello sviluppo e dell'ambiente, per formulare un piano complessivo per la lotta contro la resistenza antimicrobica. Il documento riflette un rinnovato impegno per l'azione collaborativa a livello globale da parte dell'Organizzazione mondiale per l'alimentazione e l'agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), dell'Organizzazione mondiale di salute animale (OIE) e dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
Stpulare in tempi rapidi il Patto per la Salute, sia per garantire le condizioni necessarie all’aumento del fabbisogno sanitario nazionale (MEF permettendo), sia perché la sanità pubblica non può oggi reggere ad un conflitto tra Governo e Regioni.BE sul DEF 2019 sono emerse forti preoccupazioni per la sanità pubblica sia perché la crescita economica del Paese è stata drammaticamente ridimensionata, rendendo poco realistici gli aumenti previsti dalla Legge di Bilancio per il 2020-2021, sia perché il rapporto spesa sanitaria/PIL rimane stabile sino al 2020 per poi ridursi dal 2021. «Se da un lato tali preoccupazioni – afferma Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – vengono confermate dalle audizioni dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio e della Corte dei Conti, dall’altro stupisce la sbrigativa superficialità con cui le risoluzioni di Camera e Senato sul DEF 2019 ignorano la polveriera sanità».
L’Ufficio Parlamentare di Bilancio, snocciolando i drammatici numeri del disavanzo, conferma che esistono pochi margini per una spending review e che “ulteriori tagli alla spesa sanitaria rischierebbero di incidere sulla qualità dei servizi offerti oppure sul perimetro dell’intervento pubblico in questo settore”. La Corte dei Conti, sottolineando che “al termine del 2018 […] non risultano sottoscritti gli accordi relativi alle aree della dirigenza sanitaria” rileva preoccupazioni per “la forte riduzione di personale, anche in relazione al tempo occorrente per l’assunzione di nuovo personale, con particolare riferimento a settori come la sanità […] in cui la diminuzione degli addetti rischia di incidere sull’erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni e sulla qualità dei servizi”.
A fronte di queste preoccupazioni per la tenuta della sanità pubblica, le speculari risoluzioni di Camera e Senato si limitano ad impegnare il Governo “a procedere dal 2019 ad un piano di assunzioni che argini il fenomeno della "fuga dei cervelli" e supporti la promozione di innovazione e ricerca in campo sanitario, valorizzando la funzione dei centri sanitari di nuova generazione e investendo in politiche di formazione ed inserimento lavorativo delle nuove professionalità, ad aggiornare a livello regionale il parametro di riferimento della spesa per il personale degli enti del SSN”.
«Il DEF 2019 – puntualizza il Presidente – indica il nuovo Patto per la Salute come strumento di governance per ottimizzare la spesa pubblica, ma in realtà il Patto condiziona anche le risorse per la sanità, come previsto dalla Legge di Bilancio 2019». Infatti, oltre al miliardo stanziato per il 2019, le risorse aggiuntive previste per il biennio 2020-2021 (+€ 2 miliardi nel 2020 e +€ 1,5 miliardi nel 2021) sono condizionate dalla stipula di un’intesa Stato-Regioni di un nuovo Patto per la Salute contenente “misure di programmazione e di miglioramento della qualità delle cure e dei servizi erogati e di efficientamento dei costi”.
La scadenza per la sottoscrizione del Patto era fissata al 31 marzo, ma visto che il suo mancato rispetto non avrebbe avuto conseguenze le motivazioni del ritardo inizialmente sono imputabili al dilatarsi della “fase esplorativa”. In dettaglio:
«Mentre Governo e Regioni bruciavano 4 mesi per annusarsi a vicenda – precisa il Presidente – gli scenari politici, economici e tecnici tuttavia sono mutati, rendendo la strada per la stipula del Patto per la Salute sempre più in salita e lastricata di ostacoli».
«La Fondazione GIMBE, sulla base delle proprie valutazioni indipendenti – conclude Cartabellotta – invita Infatti, il rischio concreto, oltre che di ridurre ulteriormente l’equità di accesso alle cure, in particolare per le fasce socio-economiche più deboli e al Centro-Sud, è di peggiorare gli esiti di salute inclusa l’aspettativa di vita».
E' la settimana dedicata ai "vaccines heroes", ovvero a tutte le persone che contribuiscono ad assicurare che tutti siano protetti contro le malattie prevenibili da vaccinazione: in prima linea i ricercatori che sviluppano vaccini sicuri ed efficaci, i responsabili delle politiche sanitarie che assicurano l’accesso equo alle vaccinazioni, gli operatori sanitari che somministrano i vaccini, i genitori che scelgono di vaccinarsi e di vaccinare i propri figli per proteggerli da malattie gravi, e tutti coloro che si informano sui vaccini da fonti affidabili e condividono informazioni corrette sulle vaccinazioni.
A segnalare l'avvio della Settimana europea delle Vaccinazioni, che si celebra ogni anno nella Regione Europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per ricordare che l’immunizzazione protegge da malattie gravi e potenzialmente mortali e costituisce uno dei più potenti strumenti di prevenzione a disposizione della sanità pubblica sono Antonietta Filia, Fortunato D’Ancona e Maria Cristina Rota, del Dipartimento Malattie Infettive dell'ISS, in un primo piano pubblicato nel sito dell'Istituto in cui si fa il punto sui numeri delle vaccinazioni nel mondo e nel nostro Paese.
I successi. Nel mondo, le vaccinazioni prevengono ogni anno fino a 3 milioni di decessi (7.000 al giorno) e ci proteggono da malattie gravi come il morbillo, la polio, la difterite, il tetano, e altre. Grazie alla vaccinazione, il vaiolo è stato eradicato ed il numero di casi di polio nel mondo è diminuito da 350.000 casi nel 1988 a 33 casi lo scorso anno. Il numero di casi di morbillo è drasticamente diminuito e la mortalità per questa malattia ridotta dell’84% dal 2000 (550.000 morti nel 2000, circa 90.000 nel 2016). Il tetano neonatale è stato eliminato e altre malattie gravi, come la difterite, sono diventate rare.
Le coperture. Proprio grazie a questi successi però, le malattie prevenibili con le vaccinazioni sono sempre meno percepite come un pericolo, e l’attenzione verso l’importanza dei vaccini è diminuita. Negli ultimi due anni, a causa di Coperture Vaccinali (CV) non ottimali, nel mondo si sono verificate diverse epidemie di morbillo e difterite. Da luglio 2016, infatti, è in corso una vasta epidemia di difterite in Venezuela, con oltre 1.500 casi confermati e 270 decessi. Sono inoltre in corso epidemie di morbillo in vari Paesi che avevano precedentemente raggiunto l’eliminazione, sia nella Regione Europea, sia nel resto del mondo. In Italia, nel 2017 e 2018 si è verificata una vasta epidemia di morbillo con oltre 8.000 casi e 13 morti.
Dal 2013 al 2016, è stata registrata in Italia una diminuzione delle CV per diverse malattie prevenibili da vaccino e, nel 2017 è stato pertanto esteso l’obbligo vaccinale da 4 a 10 vaccinazioni. Questa decisione è stata innescata soprattutto dalla preoccupazione destata dalla situazione epidemiologica del morbillo (malattia per cui l’Italia ha aderito all’obiettivo OMS di raggiungere l’eliminazione) e dal rischio di ricomparsa di malattie ormai eliminate o sotto controllo in Italia.
Con l’applicazione della Legge sull’obbligo vaccinale, le CV nei confronti delle malattie prevenibili per le quali è previsto l’obbligo sono aumentate già a partire dal 2017. Un ulteriore aumento è stato registrato in una rilevazione straordinaria effettuata nel 2018 nelle coorti di bambini nati nel 2015, 2014 e 2010. La CV nei confronti della polio (usata come proxy per le vaccinazioni contenute nel vaccino esavalente) nei bambini nati nel 2015, ha raggiunto nel 2017 il 94,6% a livello nazionale e il 95,5% nel primo semestre del 2018, con un valore superiore alla soglia del 95% (la minima raccomandata dall’OMS) in 13 Regioni. Per quanto riguarda il morbillo, la copertura nazionale nei bambini nati nel 2015, per la prima dose di vaccino contro il morbillo (che si effettua a 12-15 mesi di età) ha raggiunto il 91,8% nel 2017 e 94,2% nei primi sei mesi del 2018 (rispetto a 87,3% nel 2016, nei bambini di 24 mesi di età). La CV per la seconda dose di vaccino contro il morbillo (che si effettua a 5-6 anni di età), nella coorte di bambini nati nel 2010, è stata 85,7% nel 2017 e 90,1% nel 2018.
Obiettivo morbillo. Il morbillo è altamente contagioso e la sua eliminazione richiede livelli di CV maggiori o uguali al 95% per due dosi di vaccino. I Paesi di tutte le 6 Regioni OMS hanno fissato obiettivi di eliminazione di questa malattia. Nella regione Europea, 37/53 Paesi hanno eliminato il morbillo e sei hanno interrotto la trasmissione dell’infezione per un periodo di almeno 12 mesi. L’Italia rimane uno dei 10 Paesi dove il morbillo è ancora endemico, questo a causa delle scarse coperture vaccinali nel corso degli anni che hanno portato all’accumulo di ampie quote di popolazione suscettibili all’infezione. Per interrompere la trasmissione endemica del morbillo nel nostro Paese, oltre ad aumentare le coperture vaccinali tra i bambini piccoli (prima dose a 12 mesi e seconda dose a 5-6 anni), è necessario mettere in atto strategie e attività supplementari di vaccinazioni indirizzate alle fasce di età suscettibili, soprattutto giovani adulti nati a partire dalla fine degli anni 70, quando la copertura vaccinale contro il morbillo era molto bassa e si effettuava una sola dose di vaccino. Nel 2017, la CV nei 18enni (nati nel 1999) era solo del 81,2% per la prima dose e 77,7% per la seconda dose
Questi i suggerimenti degli esperti dell'Iss su come ciascuno può contribuire all'attività di prevenzione resa possibile dale coperture vaccinali:
Da segnalare sul tema anche le dichiarazioni del direttore dell'Ema, Guido Rasi, pubblicate sul sito dell'Agenzia europea dei medicinali.